A 26 anni Giuseppe Demasi sembrava l’unico sopravvissuto alla tragedia ThyssenKrupp del 6 dicembre 2007, nel rogo che assieme a lui costò la vita anche ad Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo e Rosario Rodinò. Dopo più di cinque anni, la condanna in primo grado a 16 anni e mezzo di carcere per omicidio volontario con dolo eventuale per Harald Espenhahn (e insieme a lui di diverse altre persone) diventa in appello di 10 anni per omicidio colposo con colpa cosciente. Tragedia nella tragedia… da 16 anni a 10? Ma io non scrivo mai di cronaca. A me interessa scrivere di discernimento sociale, di crisi di coscienza, di principi assoluti e valori non negoziabili: come al solito, le cose di cui non scrive e non parla mai nessuno insomma.
In questi anni però abbiamo dimenticato quasi tutti – per chi ebbe modo di seguire un po’ la vicenda – che Espenhahn fu sostituito dal nuovo AD Marco Pucci (anch’egli tra i condannati in appello a una pena ridotta) solo ad Aprile 2012 e che nell’essere rimosso da quell’incarico in realtà gliene venne assegnato un altro, “non di minor pregio” (ci tenne a precisare la ThyssenKrupp Steel Europe Ag.), nel sito produttivo di acciaio al carbonio di Bochum in Germania. “Il consueto piano di gestione delle risorse della multinazionale prevede in linea di principio il turn over degli executive” motivò ulteriormente l’azienda. Come dire: “E’ tutto normale, va bene così… Perché, c’è qualcosa di strano? Cos’è successo?”. Non vorrei scriverlo, ma anche questo è un frutto aspro della globalizzazione, del capitalismo e dell’impero del male che attorno a questi disastri ha continuato a costruire sotto agli occhi di tutti, inermi castelli di carte, complici la disperazione popolare di chi non può o non sa come difendersi e una giustizia insana e spesso collusa anche nel modus operandi che sempre più spesso vuole/deve scendere a patti con le scialuppe contate male che sul Titanic non bastano per tutti. Così, anche in questi casi amari e disperati, si apre e monta con l’aiuto di tutti la giostra mediatica del barbaro condizionamento delle coscienze: la paura che la pena troppo salata faccia scappare la multinazionale dall’Italia è tra le cause del timore di una repentina e mancata occupazione sul territorio che, “seppure costa qualche morto ogni tanto”, alimenta i vivi e le loro famiglie; la parziale giustizia che sposta il conto sulla prevenzione e sull’invito a “stare più attenti la prossima volta” è tra le più facili versioni a temperatura ambiente dell’acqua naturale, che non nuoce “alla visibilità” delle imprese e tiene duro sotto il profilo generico secondo cui “sbagliare si può, tanto in fondo la misura poi diventa soggettiva” e, soprattutto, il tempo seppellisce ogni ricordo; la gara di chi per primo farà chiarezza, vendetta, luce e via dicendo è tra le migliori spinte allo share di Bruno Vespa e alle poltrone scottanti dei propagandisti del momento ai quali in fondo non gliene fotte nulla della sofferenza di chi resta che piange e si batte per chi se n’è andato… Sono spasmi. Sono spasmi di una esistenza televisiva vendibile votata alla ricerca del colpevole che non prende mai nessuno, in nome di un dio più grande, di un imperituro amore per i delitti irrisolti, per gli slogan da campagna elettorale, per il diabolico e perverso “Ci penseremo noi a fare chiarezza, vendetta e luce“. Noi chi? Ma se prima di questo episodio non sapevamo nemmeno che esistesse una multinazionale di nome ThyssenKrupp con una cellula operativa a Terni… A Terni? Beh, se in molti non lo sapevano, dopo un evento del genere lo scoprono tutti e via di nuovo, parte un altro circo della salvezza dal sindacato alla Confindustria, ed è di nuovo guerra tra chi (sempre in nome del principio sbagliato) si batte per l’operaio e chi, occupandosi di difendere la faccia e l’istituzione, cela parole dolci e ben posate tra una virgola e l’altra di un pesante volume che parla di soldi, di interessi privati, di politica faccendiera, di ricchezza, di mantenere le acque ferme, il mare calmo …e così via. E la gente muore, muore nel corpo e nello spirito. Si dispera e chiede giustizia. Passa la vita a chiedere giustizia al dio terreno dell’interesse speculativo e finanziario che, facendo leva sull’ignoranza e sulla povertà ottura i formicai con invasioni tossiche di millepiedi blu geneticamente modificati che te li trovi addosso all’improvviso e ti gratti ovunque senza mai riuscire a debellarli tutti… E la gente muore, muore nel corpo e nello spirito.
Passano anni, decenni e intere vite di intere famiglie fanno delle proprie battaglie la loro unica ragione per una infinita marcia della sopravvivenza dei ricordi indelebili e degli affetti dispersi: per non spendere un euro in più (in tempi di crisi si risparmia in prevenzione e si compra la disperazione di chi non può fare a meno di quel lavoro perché non riesce ad essere diverso) si è disposti a competere col rischio di non essere mai accusati, ma puniti, mai pentiti…
Alla ricerca di una giustizia terrena che chiude casi aperti quando ne arrivano di nuovi dei quali parlare o scrivere, ci dimentichiamo che questo atteggiamento intermittente, questa tendenza o verità estetica da massaggio della memoria storica, riguarda tutti ovunque nel mondo. Oggi, tutta la gente muore.
C’è da chiedersi “Quanto vale la vita? Quanto costa?”. Quale pena, risarcimento, premio di consolazione, giustizia terrena o esecuzione liberale sarebbero mai in grado di ripagarla? E chi lo incassa il gettone d’oro? Davvero la pena di morte di una America che sostiene di credere in Dio ci rende sazi quando sconta una vita con un’altra? Davvero trovare un colpevole è la stessa cosa che trovare Il Colpevole? E se non lo troviamo che si fa? A chi la facciamo pagare? Se la giustizia è ingiusta, se il politico non ci aiuta, se Vespa parla d’altro all’improvviso, se qualcuno compra il silenzio di qualcun altro o se tutti fingono che vada tutto bene così com’è, con chi ce la prendiamo? Leggiamo le inchieste che ci danno ragione (tradotta in quella sottile lama brillante che spela la nostra rabbia) e ci logoriamo sulle stragi che ancora oggi non sappiamo ricostruire, alle quali non daremo mai un nome, un principio, una fine. “Quanto vale la vita? Quanto costa?”. 10 anni? 20? 30? Come si misura la pena esistenziale di chi è responsabile della morte altrui? E dopo che succede? Non ce lo domandiamo nemmeno, ma anche qui mi verrebbero infinite domande con infinite risposte (terrene). Certo che chi sbaglia paga, o almeno dovrebbe; certo che chi uccide va in galera, o almeno dovrebbe. Ma chi ha colpa non è sempre disposto a confessarla e chi la giudica a giudicarla e chi la riconosce a riconoscerla e chi la vede a denunciarla e chi la procura a condividerla e chi la assume a scontarla e… E’ il grande male di un mondo nel quale tutti sanno tutto e nessuno dice niente. Lo stesso mondo nel quale tutti ci sentiamo esonerati (ognuno per i propri buoni, buonissimi, ottimi motivi) dall’essere in quella coda tra i primi a cambiare le cose, tra i primi a dare la vita per la verità, tra i primi a dirla diversa, tra i primi, punto. Siamo sempre in prima fila tra i nessuno che dicono niente e mai primi tra i tutti che sanno tutto.
La verità è che la vita non ha un prezzo, non costa, non vale mai abbastanza se lo sforzo che facciamo è quello di volerla quantificare in pene, in soldi, in baratto o quant’altro esiste a questo mondo. Nella sua mediocrità giuridica di essere tradotta in parole povere: non si può. Non esiste niente su questa terra che possa dare una misura equa e realmente giusta per tutti al valore della vita: 1) perché il metro che usiamo “in libertà”, secondo criteri e paradossi che sono invece figli di un relativismo impuro e dittatoriale, è profondamente diverso; 2) perché in molti casi perdere una vita paradossalmente oggi conviene a un sacco di gente. E’ un pensiero largamente frutto di una globalizzazione che si è diffusa indisturbata (per “amore” del capitalismo) su una eterogeneità indomabile di diverse culture, idolatrie e speculazioni esistenziali che – purtroppo e inevitabilmente – non sono sempre un gran fiorire di bel confronto tra i popoli, come invece a tutti piacerebbe poter dire e dimostrare. Piuttosto si traducono nelle terribili contraddizioni espresse dalla realtà quotidiana che ci circonda e che si manifesta semplicemente: nella guerra dei prezzi (il cinese medio che costa meno perché non ha il senso profondo del valore dell’esistenza e da alla vita una misura equivalente alla riscossa dell’occidente); nella perdita di valore equo e sostenibile (il pomodoro italiano che per competere con quello spagnolo gareggia sull’ottimizzazione dei costi avvalendosi dello sfruttamento clandestino); nella disponibilità obbligata di chi è disposto a tutto in cambio di sempre meno (perfino un killer che ammazza un paparazzo sul lungotevere a Roma ormai lo si trova dietro l’angolo)…
In fondo, tutti questi esempi, e potremmo farne molti altri, in comune hanno il valore che si è disposti a riconoscere alla vita.“Quanto vale la vita? Quanto costa?”: oggi vale tanto di cui si ha ha bisogno per vivere quanto di cui si ha bisogno per morire, ed entrambi i metri sono relativi a noi stessi, al nostro ordine di grandezza, alla nostra dimensione relativa. Se basta poco per cui valga la pena di uccidere e quindi di morire (una lite in discoteca tra adolescenti, sempre a Roma la scorsa settimana), varrà poco anche per cui valga la pena di lavorare (la prevenzione non la facciamo tanto lavorano lo stesso e io non mi lamento perché lavorare diventa più importante che… vivere). E di questo passo si continua a curare il sintomo e mai la causa, a chiedere giustizia e mai ad ottenerla…
Fin quando non capiremo che la vita non è nostra e che non siamo liberi di amministrarne secondo popolo, pensiero o tradizione la funzione, l’uso e l’abuso, il grado di tolleranza o la dignità, ognuno continuerà a dare alla morte degli altri il valore e la misura che ritiene relativamente giusti rispetto alle proprie necessità. E, morale della favola, la giustizia farà lo stesso, e come lei tanti altri ambiti e contesti.
Certo che non bisogna arrendersi. Certo che il timone finché siamo su questa terra lo abbiamo noi. Ma come in ogni esplorazione in mare aperto che si rispetti, se non sappiamo dove andare mantenere la rotta sarà sempre più difficile quanto più importante.
Che la vita non abbia un prezzo e quindi non le si possa dare un valore per ripagarla, mai in nessun caso, è un fatto indiscutibile, uno di quei valori non negoziabili che a me stanno tanto a cuore. Oltre a chi avrà commesso dei delitti, anche la giustizia terrena, nel giorno del Giudizio Universale, risponderà dei propri meriti e delle proprie colpe secondo Volontà. A noi resta quel “poco” necessario a non demordere mai, la preghiera di poter chiedere al Signore infiniti aiuti e doni indomita fonte di forza e di coraggio e quella tanta paura che spesso abbiamo di non farcela…
1 commento su “Tutta la gente muore, ma senza sapere Quanto Vale la vita.”
Ciao giorgia, leggo il tuo blog con alcuni altri amici dopo aver letto il tuo libro da un paio d'anni e averlo regalato a tutti! vorrei solo ringraziarti per quello che scrivi e pregarti di non smettere mai..Mi chiamo Annalisa, sono di Taranto, ho 25 anni e sono ancora disoccupata, ma quando ti leggo non so mi viene voglia di non perdere mai la speranza.Veramente grazie!! ciao
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In un mondo schizofreneticamente assediato da mille e più false verità, la Verità si presenta come Unitotale, che comprende dal Primo all'Ultimo, dall'Alfa all'Omega
Pagina personale di Robi Ronza. Giornalista e scrittore italiano, esperto di affari internazionali, di problemi istituzionali, e di culture e identità locali.
Ciao giorgia, leggo il tuo blog con alcuni altri amici dopo aver letto il tuo libro da un paio d'anni e averlo regalato a tutti! vorrei solo ringraziarti per quello che scrivi e pregarti di non smettere mai..Mi chiamo Annalisa, sono di Taranto, ho 25 anni e sono ancora disoccupata, ma quando ti leggo non so mi viene voglia di non perdere mai la speranza.Veramente grazie!! ciao
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