
In realtà, la vera domanda che mi veniva ieri, proprio mentre guardavo la lettera sul residuo del mutuo di casa mia, era proprio un paradosso del genere:
“Ma se la campagna elettorale di un Berlusconi qualunque si regge sull’IMU da più dieci anni ormai, perché non bastano questo genere di notizie e di proclami a fare tutti più contenti?”. Oggi, chi si sente in diritto di dover avere un lavoro è la stessa persona che, sempre più spesso, ti risponde anche che
uccidere qualcuno è lecito perché sei disperato. Mediamente, questa contrapposizione di pensiero è ormai metodica e frequente: riguarda sempre un atto grave – auto giustificato – in risposta a un diritto presunto – anche questo auto definito. Il mondo impazzisce all’improvviso? Certo che no, ma sta sicuramente smarrendo il profondo senso dei diritti e dei doveri, del bene comune, dei valori universali. E’ chiaro che se ognuno si sente padrone di poter decidere sulla vita o sulla morte di qualcuno, indipendentemente dal motivo e in ogni momento, la differenza tra la cultura del piccone di Kabobo e la legalizzazione dell’aborto o dell’eutanasia diventeranno sempre più
semplici da digerire, fino a non stupire neanche più. Alla fine, per assurdo, saranno “naturali conseguenze della modernità”. I bambini e i giovani di oggi cresceranno assimilando, pian piano, dal resto del mondo, queste
tendenze e uno stile di vita
consentito secondo opinione e non secondo natura. Sei disperato? Puoi uccidere un altro – ma anche te stesso – al quale
secondo te è giusto attribuire la colpa della tua disperazione. E’ vero per Kabobo, tanto quanto per la mamma single che pratica un aborto per paura, tanto quanto per un padre che si da fuoco – coinvolgendo moglie e figlia – in un suicidio di massa universale, tanto quanto le maestre che maltrattano i bimbi dell’asilo perché evidentemente hanno altri problemi… Qualcuno continuerà a dire ai bambini di oggi che l’uomo e la donna sono uguali e che la vita è una questione
di genere in funzione di ciò che
in autonomia sceglieranno di voler diventare, anche sessualmente, diversamente da quello che
sono in natura. Qualcuno continuerà a dire agli stessi bambini di oggi che la vita è una
questione di fortuna in funzione di ciò che
ti capita e di dove nasci, eppure tutti vorrebbero diventare ricchi. Chi ha scelto di diventare povero l’hanno fatto santo, caso strano. E’ così che, partendo da uno stato naturale – e dunque indiscutibile – di uomo e donna, ricco e povero, oggi possiamo scegliere
di che genere essere in realtà. E’ così che, invece di camminare sulla via della riconciliazione con se stessi e con i propri drammi, ci si incammina su una strada di perdizione e di follia che ha molte cose a che vedere anche con i tanti atti drammatici di questi ultimi giorni. La metafora è la stessa: io scelgo il peccato, il peccatore e il giustiziere, dopo di che qualcun altro si occuperà delle conseguenze, delle priorità. Con una giustizia terrena che sempre più raramente è uguale per tutti, questa tendenza alla disperazione, all’auto determinismo e alla pena fatta in casa, si diffonde sinuosamente nelle trame allentate delle nostre coscienze, insonnolite dal trambusto di questo tempo complicato. Certo
ognuno ha i suoi problemi, per carità, ma anche quelli ormai troppo spesso sono
arbitrari. Conosco gente che si lamenta perfino di quello che ha e che magari gode anche di ottima salute, cosa che trovo a dir poco assurda – conoscendo molto bene anche il contrario -, e che mai davvero possiede la vita vera. Abbiamo smarrito perfino l’indice della gravità; ci sentiamo tutti in grande crisi, in grande difficoltà, in totale disperazione. Nessuno più utilizza
il giusto metro.
Chi misura la mia disperazione o la tua? Chi decide se uccidere o meno un presunto colpevole dei nostri presunti drammi sia o meno
più grave di decidere di mettere o meno al mondo un bambino down? Sempre di omicidio si parla… Riuscire o meno a pagare un mutuo che indice è? Di cosa? Di quale benessere o malessere? Qual è il vero problema? Siamo sempre lì: di certo si nasconde abilmente nel requisito di partenza, nel senso della vita, nella qualità dell’essere umano, inteso nel senso più nobile del termine, dotato di coscienza, spirito e verità. Cos’è davvero la povertà? Cos’è veramente la disperazione? Per cosa davvero vale la pena di vivere? E soprattutto per cosa davvero vale la pena di morire? A me spiace sembrare così dura, a volte, perché nella vita non lo sono affatto, ma la prima cosa da capire è che
non si può morire per impazienza, non si può morire per i propri debiti, non si può morire per essere rimasti senza lavoro, non si può uccidere, violentare o abusare di un altro essere umano per passare il tempo o perché si è disperati, non si può raccontare al prossimo che è bene gridare vendetta e poi stupirsi che vadano tutti a caricare un fucile, non si può essere fautori di genere e funzione, non si può vivere prevedendo tutto in anticipo, non si può vivere per il denaro, né per la carriera. Non si può scambiare la bellezza della vita con un mutuo sulla casa. Se, prima di tutto, non capiamo questo, tutto il resto andrà avanti a ruota libera, e non per colpa di qualcuno, ma per nostra diretta responsabilità, per aver sbagliato mira e metro, che si faccia o meno una cosa in prima persona. Conosco un sarto bravissimo, che prima non conoscevo, che ha piena misura della perfezione e utilizza sempre il giusto metro. Grazie a Dio, da qualche anno, sto rinnovando il guardaroba della vita. Una maglietta low cost comprata all’outlet è la vera disperazione: non di chi la compra per spendere meno, ma di chi la fa per guadagnare in un anno quello che chi la compra guadagna in un giorno. Attenti a non sbagliare metro: il resto è outlet.