Gesù è il sarto di Nazareth. Il resto è outlet.

E’ veramente difficile ultimamente scegliere il tema di un post. Vorrei scrivere qualcosa su tutto ciò che accade e non ne ho il tempo. Del resto, vorrei poter fare solo la scrittrice e non posso, almeno non ancora. Il fatto è che c’è una tale concentrazione di follia in giro che non si sa a chi dare i resti. Il bello è che per una strana contingenza di eventi banali, anche la veridicità e l’importanza della selezione delle notizie sembra essere lasciata ai più brillanti interventi del martedì sera di Maurizio Crozza a Ballarò o, in alternativa, alla cronaca che, quando non è rosa, è nera.
Di che scrivo? Del carabiniere sparato e di quanto sia assurdo che la gente inizi a credere che sia un atto lecito perché è disperata? Oppure, del femminicidio che è di nuovo al centro dell’attenzione in queste settimane a causa dei delitti e abusi commessi di recente? Forse, mi conviene scrivere due righe su quanto mi è parso assurdo leggere il cartello “L’utero è mio e me lo gestisco io”, delirio di tante donne che erano alla “marcia della non-vita” (abusiva e non autorizzata) domenica scorsa? Mi sa che è meglio un post sulla terza vittima del ganese Kabobo, il pensionato morto ieri mattina dopo essere stato preso a picconate per strada senza motivo da un altro essere umano? Però anche chi si da fuoco per la disperazione di un lavoro perso o di un mutuo che non riesce a pagare è qualcosa di cui scrivere. E che dire delle maestre arrestate stamattina per aver abusato di alcuni bambini in un asilo di Roma o del Presidente della Provincia accusato di concussione sul caso ILVA?
In realtà, la vera domanda che mi veniva ieri, proprio mentre guardavo la lettera sul residuo del mutuo di casa mia, era proprio un paradosso del genere: “Ma se la campagna elettorale di un Berlusconi qualunque si regge sull’IMU da più dieci anni ormai, perché non bastano questo genere di notizie e di proclami a fare tutti più contenti?”. Oggi, chi si sente in diritto di dover avere un lavoro è la stessa persona che, sempre più spesso, ti risponde anche che uccidere qualcuno è lecito perché sei disperato. Mediamente, questa contrapposizione di pensiero è ormai metodica e frequente: riguarda sempre un atto grave – auto giustificato – in risposta a un diritto presunto – anche questo auto definito. Il mondo impazzisce all’improvviso? Certo che no, ma sta sicuramente smarrendo il profondo senso dei diritti e dei doveri, del bene comune, dei valori universali. E’ chiaro che se ognuno si sente padrone di poter decidere sulla vita o sulla morte di qualcuno, indipendentemente dal motivo e in ogni momento, la differenza tra la cultura del piccone di Kabobo e la legalizzazione dell’aborto o dell’eutanasia diventeranno sempre più semplici da digerire, fino a non stupire neanche più. Alla fine, per assurdo, saranno “naturali conseguenze della modernità”. I bambini e i giovani di oggi cresceranno assimilando, pian piano, dal resto del mondo, queste tendenze e uno stile di vita consentito secondo opinione e non secondo natura. Sei disperato? Puoi uccidere un altro – ma anche te stesso – al quale secondo te è giusto attribuire la colpa della tua disperazione. E’ vero per Kabobo, tanto quanto per la mamma single che pratica un aborto per paura, tanto quanto per un padre che si da fuoco – coinvolgendo moglie e figlia – in un suicidio di massa universale, tanto quanto le maestre che maltrattano i bimbi dell’asilo perché evidentemente hanno altri problemi… Qualcuno continuerà a dire ai bambini di oggi che l’uomo e la donna sono uguali e che la vita è una questione di genere in funzione di ciò che in autonomia sceglieranno di voler diventare, anche sessualmente, diversamente da quello che sono in natura. Qualcuno continuerà a dire agli stessi bambini di oggi che la vita è una questione di fortuna in funzione di ciò che ti capita e di dove nasci, eppure tutti vorrebbero diventare ricchi. Chi ha scelto di diventare povero l’hanno fatto santo, caso strano.  E’ così che, partendo da uno stato naturale – e dunque indiscutibile – di uomo e donna, ricco e povero, oggi possiamo scegliere di che genere essere in realtà. E’ così che, invece di camminare sulla via della riconciliazione con se stessi e con i propri drammi, ci si incammina su una strada di perdizione e di follia che ha molte cose a che vedere anche con i tanti atti drammatici di questi ultimi giorni. La metafora è la stessa: io scelgo il peccato, il peccatore e il giustiziere, dopo di che qualcun altro si occuperà delle conseguenze, delle priorità. Con una giustizia terrena che sempre più raramente è uguale per tutti, questa tendenza alla disperazione, all’auto determinismo e alla pena fatta in casa, si diffonde sinuosamente nelle trame allentate delle nostre coscienze, insonnolite dal trambusto di questo tempo complicato. Certo ognuno ha i suoi problemi, per carità, ma anche quelli ormai troppo spesso sono arbitrari. Conosco gente che si lamenta perfino di quello che ha e che magari gode anche di ottima salute, cosa che trovo a dir poco assurda – conoscendo molto bene anche il contrario -, e che mai davvero possiede la vita vera. Abbiamo smarrito perfino l’indice della gravità; ci sentiamo tutti in grande crisi, in grande difficoltà, in totale disperazione. Nessuno più utilizza il giusto metro. Chi misura la mia disperazione o la tua? Chi decide se uccidere o meno un presunto colpevole dei nostri presunti drammi sia o meno più grave di decidere di mettere o meno al mondo un bambino down? Sempre di omicidio si parla… Riuscire o meno a pagare un mutuo che indice è? Di cosa? Di quale benessere o malessere? Qual è il vero problema? Siamo sempre lì: di certo si nasconde abilmente nel requisito di partenza, nel senso della vita, nella qualità dell’essere umano, inteso nel senso più nobile del termine, dotato di coscienza, spirito e verità. Cos’è davvero la povertà? Cos’è veramente la disperazione? Per cosa davvero vale la pena di vivere? E soprattutto per cosa davvero vale la pena di morire? A me spiace sembrare così dura, a volte, perché nella vita non lo sono affatto, ma la prima cosa da capire è che non si può morire per impazienza, non si può morire per i propri debiti, non si può morire per essere rimasti senza lavoro, non si può uccidere, violentare o abusare di un altro essere umano per passare il tempo o perché si è disperati, non si può raccontare al prossimo che è bene gridare vendetta e poi stupirsi che vadano tutti a caricare un fucile, non si può essere fautori di genere e funzione, non si può vivere prevedendo tutto in anticipo, non si può vivere per il denaro, né per la carriera. Non si può scambiare la bellezza della vita con un mutuo sulla casa. Se, prima di tutto, non capiamo questo, tutto il resto andrà avanti a ruota libera, e non per colpa di qualcuno, ma per nostra diretta responsabilità, per aver sbagliato mira e metro, che si faccia o meno una cosa in prima persona. Conosco un sarto bravissimo, che prima non conoscevo, che ha piena misura della perfezione e utilizza sempre il giusto metro. Grazie a Dio, da qualche anno, sto rinnovando il guardaroba della vita. Una maglietta low cost comprata all’outlet è la vera disperazione: non di chi la compra per spendere meno, ma di chi la fa per guadagnare in un anno quello che chi la compra guadagna in un giorno. Attenti a non sbagliare metro: il resto è outlet.

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