di Carla Mauro
Era l’anno 2005, era il mio terzo viaggio dalla fine della guerra, e dovevamo controllare l’andamento delle scuole istituite dall’associazione Magic Amor che mio marito, medico congolese, ed io avevamo fondato. Era il secondo giorno che passavamo al villaggio, nella relativa quiete della nostra capanna, dopo il massacrante viaggio lungo le piste della foresta equatoriale. Una donna che sembrava precocemente anziana, si avvicinò:
“Minganga, Dottori, venite! Mia figlia sta molto male!”.
L’avevano portata da alcuni parenti in una capanna lontana dalla nostra non più di quaranta metri. La capanna era buia e affollata di persone; il letto era così basso che per visitare mi dovetti accucciare sulle ginocchia. La ragazza, di statura e floridezza inconsueta, giaceva nel letto, distesa su un fianco. Era immobile, avvolta da un lieve tremore, il respiro veloce e superficiale…
“Come si chiama?”
“Thérése” mi dissero.
La chiamai, la toccai. Non rispose.
“Da quanto tempo sta così?”
“Un giorno – dissero – e tre giorni fa ha dato alla luce per la prima volta”.
Mi mostrarono un pargoletto dormiente, florido come la madre. Pascal, il nome del mio primo figlio.
Nella mia mente passarono velocemente alcune realtà di cui avevo letto nei libri: tetano puerperale, sepsi puerperale, meningite batterica… Mi accostai alla sua nuca, non era rigida, e non aveva neanche spasmi muscolari di alcun tipo, solo il cuore batteva velocissimo e il corpo era scosso da brividi di febbre. Nonostante la febbre dal suo volto traspariva una bellezza non comune e lo splendore della sua prima maternità.
L’ospedale più vicino era a cinquanta chilometri, ed in più senza medico ed in uno stato di grande abbandono dopo il saccheggio nel periodo di guerra. Avevo cefalosporine iniettive di III generazione, flebo e deflussori, fiale di chinino. Dovevo farcela, dovevo salvare Thérèse, doveva danzare seguendo la tradizione della sua tribù, dopo quaranta giorni, nel giorno in cui viene presentato il bambino, doveva vederlo crescere.
Mio marito si avvicinò a me e con dolcezza mi disse:
“Questa ragazza non guarirà”.
Gli risposi:
“Dobbiamo fare tutto il possibile per salvarla!”
ed iniziai ad organizzare un improbabile tavolino di terapie accanto al semplice giaciglio. Controllavo ogni tre ore la situazione e mi sembrava di scorgere dei miglioramenti. Aspettavo con ansia il momento in cui i suoi occhi neri avrebbero guardato i miei con stupore e gratitudine. Ed io con lei saremmo divenute insieme, di nuovo, madri.
Due giorni dopo, mentre i bambini della scuola cantavano, nel corso di un saggio dimostrativo preparato per noi, fummo avvertiti. Thérèse non avrebbe cresciuto il suo bambino.
Corsi alla capanna, abbracciai sua madre. Calde lacrime rigavano anche il mio viso.