di Giorgia Petrini
Lunedì 28 Aprile (due giorni fa) in Oklahoma, nel penitenziario di McAlester, presentato dai suoi “curatori” americani con il più lodevole merito-appellativo di Dipartimento di Correzione (e come lo “correggi” un morto?) Clayton Lockett (38 anni) è stato “giustiziato”, o meglio, doveva essere “giustiziato”. In realtà, questi casi in particolare, possiamo chiamarli di pubblica tortura (avendo nel frattempo dimenticato alcuni esempi di spettacolarizzazione o banalizzazione della morte). Al Death Row è dedicata una ricca pagina web di “presentazione” del prodotto esecutivo, con tanto di lista dei presenti nel braccio della morte, in attesa di essere “giustiziati”. Lockett è …era, infatti, al rigo 206409 per la morte in scena. Pagina 2 di un pdf a disposizione del mondo su internet, senza restrizioni. E’ bene precisarlo.
Parlando dell’esecuzione di Lockett, il Corriere titola questa vicenda con le parole “Pena capitale, orrore in Oklahoma: condannato muore dopo 43 minuti”. Qui il pezzo. “Condannato”, scrive, lasciando stare l’anonimato che si riserva a un qualunque numero di matricola, non “giustiziato”. Se fosse morto subito forse avremmo cambiato verbo, ma temo che, molto più semplicemente, in sostanza nessuno se ne sarebbe accorto. Sorvolando un attimo sul tragico evento della morte – che, sia chiaro per tutti, è sempre un evento tragico -, il senso di questo avvenimento è che i verbi condannare e giustiziare, sembrerebbero avere lo stesso significato attivo, per chi li usa in queste circostanze. Come se svolgessero la stessa funzione pratica rispetto alla realtà verso la quale, di fatto, agiscono. Nessun migliore approfondimento per la parola “orrore”. Non si capisce bene se l’orrore sia per la condanna, per il tipo di giustizia adottata, per la pena di morte in sé, per le sofferenze inflitte al “giustiziato” o per l’incredulità del pubblico attonito, che, però, ricordiamolo, assiste alle esecuzioni dei condannati, anzi, non manca mai di farlo, dando luogo a una ancor più tragica spettacolarizzazione della morte.
Solo apparentemente, condannare qualcuno significa anche giustiziarlo. Pensateci. E’ un invito fatto da una donna che, almeno fino a venticinque anni, da brava atea giustizialista, è stata favorevole alla pena di morte. Poi una domanda ha innestato nella mia coscienza (“tutti ne abbiamo una” è la news del giorno solo per voi) un dubbio atroce: chi ha davvero il potere, il valore, il merito, la legge o la giusta causa, per praticare su un altro essere umano – fallibile e fallace quanto me – la stessa azione per la quale io lo condanno a morte. Anzi, in questo caso è lo Stato, a nome di un’intera nazione che lo fa, tutti contro uno. Ti piace vincere facile. Altro esempio di equità, di giustizia e pari dignità: il motivo che ci rende diversi, solo apparentemente, è quello per cui si muore. Nel caso specifico, Lockett ha ucciso una povera ragazza di 19 anni. E’ un assassino, senza dubbio, intendiamoci. Non si discute su questo, ma – proprio per questo – non si capisce per quale motivo io che uccido sono bravo e buono e lui che uccide è brutto e cattivo. In cosa siamo diversi, esattamente? Nell’età della persona che abbiamo “giustiziato”? Nel modo più o meno tragico in cui lo abbiamo fatto? Nel motivo per cui abbiamo ucciso qualcun altro? Uccidere qualcuno è davvero un’azione che cambia valore in funzione del motivo per cui lo stiamo facendo? Purtroppo – per questo mondo e in nome dei falsi miti del progresso – la risposta è sì, altrimenti non esisterebbe un così acceso dibattito sull’aborto, sull’eutanasia, sull’eugenetica e su tutti quei temi circostanti o collaterali che, in qualche modo, girano sempre attorno alla vita, alla morte e a un qualche mio interesse personale. Tutti coloro che, riguardo a questi temi, hanno posizioni di assenso motivano il principio del loro accordo alla morte con cause che alloggiano nell’appagamento (vendetta), nell’avarizia (denaro), nell’ira (odio per qualcuno), nella superbia (convinzione che io non lo farei mai), nella scomodità, nel giustizialismo, nella paura di perdere qualcosa e sempre più spesso anche nell’individualismo, nel carrierismo, nell’onnipotenza, nella vanità (come Josie Cunningham che vuole abortire per diventare famosa partecipando al Grande Fratello). E attenti, per inciso, molti di questi casi, che noi chiamiamo diritti e legalizziamo a tutti gli effetti, in altri paesi del mondo, sarebbero altrettanto soggetti alla pena capitale. Ma andiamo avanti.
Oggi questo si chiama cultura dello scarto e della morte. Ci sentiamo migliori degli americani, o chi per loro, non ritenendoci tanto selvaggi da praticare la pena di morte (ma depenalizzare l’incesto, invece, va bene), ma lasciamo morire d’altro anziani e bambini, anche in Italia, nella nostra città, nel nostro quartiere, nel nostro condominio, nella nostra casa.
Questo è il tempo in cui tutto ha un prezzo, ma non ha un valore. Verrà il tempo in cui Qualcuno ci spiegherà in cosa abbiamo sbagliato veramente e perché (strano che si chiami “giudizio universale” e non “giustizia universale”, no?). Solo allora avremo tutta l’eternità per cercare di capirlo, ma non ce ne sarà bisogno perché, proprio lì, anche chi crede solo a ciò che vede, vedrà. E capirà all’istante.
La vita vale sempre più della morte, perché tutto può succedere e lo sappiamo per esperienza! Si correggono i vivi, non i morti. Ci si pente e ci si redime da vivi, non da morti! Lo sapevano benissimo Mosè e Pietro che hanno conosciuto la misericordia di Dio, non meno di me (e di te)!
Il braccio della morte ci riguarda tutti, ogni giorno e in ogni luogo. Tu da che parte stai?