di Giorgia Petrini
A dar conto alle nuove leggi sull’eutanasia dei minori in Belgio, oggi questa foto non esisterebbe. Con due genitori concordi e una legge che lo permette, la vita di Nick Vujicic sarebbe durata al massimo qualche ora e il mondo non avrebbe mai conosciuto quest’uomo, tanto straordinario. Con il voto all’eugenetica della civiltà moderna, questa qui, secondo noi, non sarebbe mai una vita degna di essere vissuta. Come si può vivere senza braccia e senza gambe? Come ci si può sposare, amare qualcuno e lasciarsi amare? Fare un figlio addirittura, o due, o magari tre? Come si può chiamare “vita” una tale esistenza? E perché non sarebbe giusto scegliere se vivere o morire in una condizione tanto complicata? Mi verrebbe da rispondere che basta chiedere a Nick, e a molti altri come lui, ma sarei ancora una volta un’idolatra, come ai vecchi tempi, e invece sto cercando di uscirne.
Come sempre il punto è da dove si parte e in cosa si crede. Non esiste una versione relativa della verità, come direbbe Roger Scruton, se si crede nella Verità, qualunque essa sia per ognuno di noi. Ma, insieme a Dio, abbiamo smarrito anche il profondo senso dell’assoluto, secondo cui il vero centro del mondo non è più la verità, che ci prescinde sempre, nella semplice espressione della realtà (sebbene oggi la si voglia negare da ogni parte), ma ciò che noi assumiamo essere il centro (e al centro) delle nostre vite. Del resto, l’ateismo di questo tempo è una religione come un’altra che adora la ragione anziché Dio, quindi, come disse Dostoevskij (scrive Francesco Agnoli) “finisce per inginocchiarsi di fronte a tante cose, invece che di fronte a Dio”.
Una cosa è credere che la mia vita sia mia perché “non sono di nessuno” e mi auto-determino (che già solo a dirla così è una follia surreale, ma sorvoliamo); un’altra cosa è credere che sia un dono di Dio. Se è mia, non si capisce come mai dovrei avere una voce in capitolo su quella degli altri (nel loro caso, non vale? Anche quella degli altri è mia? Ma non dovrebbe essere la loro? Mah…); se non è mia, non lo è, ovvero non ne sono mai padrone e la ritengo sempre e comunque un dono, sia per me che per gli altri. Queste due posizioni cambiano tutto e sono alternative tra di loro. In merito a queste due posizioni non c’è un “dipende”, un “io penso”, un “vediamo”; ci sono due verità assolute e antitetiche. O pensi che la vita sia un dono (quindi non è mai tua) o pensi che non lo sia (quindi ti appartiene sempre, finché vivi… anche se quando muori, poi, boh, anche qui non si capisce bene di cosa ci si ritenga “padroni”, visto il limite evidente, comunque…).
Io sono (diventata, in realtà, perché chi mi conosce sa bene che ero atea) di quelli che la vita è un dono di Dio e quindi di quelli che pensano che un solo uomo (come Nick Vujicic) o una sola donna (come Chiara Corbella Petrillo), abbandonati alla volontà del Padre, possano cambiare il mondo intero se quello è il motivo per cui sono venuti al mondo e se la loro vita non è una loro proprietà, ma un dono per tutti. E non c’è un altro motivo per vivere, sinceramente, se non quello di sapere di avere una missione, di essere in cammino verso una meta, di accogliere la “propria” vocazione, di accettare che la realtà sia lo spazio e il tempo nella quale Dio ci chiama ad essere qualcosa per gli altri, a non finire con noi stessi, a non fare di noi quel poco che la nostra ragione e il nostro egoismo vorrebbero farci essere, o ancor peggio diventare. Se stare qui per nascere, crescere, mangiare, dormire, lavorare, essere efficienti e intelligenti, negare Dio e poi morire, è l’unica cosa che abbiamo da fare su questa terra, mi sa che uno così non fa effetto a nessuno. E invece, a guardarlo bene, si direbbe proprio il contrario. Chissà se Dio ne sa qualcosa…
Grazie Fiorenzo.
Non mi ritengo all’altezza di una risposta da magistero, ma provo a dirti cosa faccio io nelle tue condizioni, comuni a molti di noi, tralasciando per forza di cose tantissimi approfondimenti che andrebbero dibattuti in altre sedi e con altri strumenti.
Premesso che penso che noi, da cristiani, praticanti e credenti come dici tu, non “chiediamo” e non “imponiamo” niente a nessuno (tanto meno di vivere, visto che sono venuti al mondo non per nostri meriti, ma per volere del Cielo), ritengo che questo non ci esuli dal dare una testimonianza diversa. Noi non giudichiamo le scelte degli altri, ma ciò non significa che non si debba credere e parlare delle “nostre”, se davvero crediamo che la vita non ci appartenga e sia di fatto un dono di Dio (non possiamo darci la vita e pensiamo di poterci dare la morte?). In questo, personalmente spesso vedo una fatica diffusa nel distinguere le opinioni dai giudizi.
In questo specifico post poi, come ho scritto, mi riferisco peraltro ai recenti provvedimenti attuati dal Belgio per l’applicazione ai MINORI dell’eutanasia, sottintendendo che se avessimo ritenuto la vita di Nick “solo sua” o “solo nostra” lo avremmo certamente ritenuto indegno di vivere (senza sapere cosa poteva diventare e senza poter appurare con lui se fosse o meno d’accordo), privando milioni di persone della sua testimonianza, del suo esempio e di un’evidente opera di Dio, come molte altre ce ne sono su questo argomento, volendole cercare e approfondire.
La vera questione, a mio modesto parere, è se noi crediamo oppure no nella storia della Salvezza per come la conosciamo, e se crediamo oppure no che “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9, 23) e che “Niente è impossibile a Dio” (Lc 1, 37).
Su questi temi noi non possiamo, secondo me, avere dei dubbi e abbiamo il solo compito (condivido, non facile) di testimoniarlo con la vita. E’ chiaro che il contesto e la realtà che ci circondano, e di cui ci circondiamo, fanno parte di questa testimonianza e sono quindi assolutamente necessari a darci della nostra vita una visione, piuttosto che un’altra, ma è altrettanto chiaro che per volontà di Dio (questa è la nostra fede) nello stesso momento in cui veniamo al mondo siamo degni per Lui, in qualunque modo e condizione. E per andare in Cielo non serve altro.
Penso, Fiorenzo, che noi non imponiamo a nessuno di vivere, proprio perché a priori decidiamo molto poco sulla vita degli altri, mentre a volte sembra che sia il mondo a volerci imporre di morire. Attenti al sottile filo che lega il “diritto di morire” al “dovere di morire”. Chi dirà a quali condizioni? Perché? Secondo chi? O a che età (come nel caso belga)? Pensando proprio al Belgio, se Nick fosse stato dai genitori ritenuto “indegno” e senza speranza, come avrebbe fatto il mondo a trarre forza e coraggio dalla sua esperienza? Decidere di morire o di vivere, per noi o per gli altri, non è mai una scelta soggettiva che riguarda solo noi o la persona che la compie. La vita, più in generale, non è una questione “personale” e la nostra fede ci insegna “semplicemente” questo: ad essere testimoni del fatto che Dio ci ama come Padre. Questo è per noi il più valido motivo per vivere e sentirsi degni di stare al mondo, come Lui ci ha voluti, ci vuole e ci vorrà, e non come noi vorremmo. Quello che siamo non è “nostro” e, per questo, non possiamo farne ciò che vogliamo, perché non siamo qui per noi. Ciò non toglie che il Signore, assieme alla vita, ha donato a tutti la libertà: di questa è sempre bello parlare e condividere opinioni ed esperienze, senza entrare nell’ambito del giudizio e della condanna, né noi per loro, né loro per noi, ma rimane il fatto che un cristiano è sempre chiamato a battersi in difesa della vita. Non è un diritto, è un incisione scritta nel nostro cuore.
Provo a lasciarti questo e ti ringrazio per il tuo commento:
https://giorgiapetrini.wordpress.com/2014/01/10/quel-giorno-in-cui-dio-ha-pensato-solo-a-me/
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Ho letto con attenzione la sua risposta e anche il suo suggerimento… veramente bellissimo il sapere che Dio mi ama individualmente…, e per prima cosa la, anzi, spero ti vada bene il tu, per prima cosa ti ringrazio moltissimo per la celerità e l’attenzione che mi ha riservato. Vede, tra noi è piuttosto facile, tra noi ci capiamo, concordiamo. Il mio prof. di filosofia (sto seguendo un corso di Scuola di teologia in seminario a Treviso) una volta ci disse questo :”Là, dove c’è la libertà, c’è il vero incontro…là, dove c’è la necessità e la costrizione, là non c’è l’incontro, ma là, c’è la tirannia dell’uno sull’altro”
e ancora..
“L’umiltà è quando noi diciamo la verità che vediamo dal nostro punto di vista….è solo un’opinione…bella, fondata, da rispettarsi…ma è sempre un’opinione. Questo toglie qualsiasi integralismo, qualsiasi totalitarismo….qualsiasi ismo…con cui qualcuno pesta i piedi, o la testa a qualcun altro. Davanti al buon Dio, ogni opinione è santa… se verificata…davanti al buon Dio, ogni persona che pensa è meritevole di rispetto…e comunque, anche il non pensare è una scelta che merita rispetto” Don Mariano Maggiotto. Ecco cara Giorgia, ci sono anche gli altri…e con altri punti di vista. A me è stato insegnato di accoglere, di amare, non solo quelli che…, ma tutti, anche chi ti è nemico…no? Ora ti faccio leggere una lettera di una persona con la quale sono in corrispondenza. E’ ateo, è vedovo, è anziano…e a me fa tanta, ma tanta tenerezza, seppur non condivida quello che dice…Io penso che se le sue obiezioni siano pertinenti, a lui io devo impegnarmi a dargli testimonianza. Il suo è un commento su un articolo di giornale che parla di una donna di 85 anni che è andata in Svizzera per morire, eutanasia. Non aveva nè problemi finanziari, nè di salute, questa donna. Solo si sentiva sola e non più “bella”. Ecco il suo commento……….. Ognuno è libero di scegliere quando rimandare indietro il ‘’dono’’, quando il suo essere lo ritiene non più idoneo allo scopo per il quale gli era stato fatto. In altre parole della propria vita ognuno può fare ciò che vuole. Ognuno può decidere di rimandare il più possibile il ritorno presso il proprio creatore, altri di anticipare l’evento ricorrendo a vari metodi, dolorosi o meno dolorosi, ma più spettacolari come buttarsi da grande altezza, sotto un treno, o facendo la fine del martire portandosi con sé tanta altre vite. Infine c’è l’eutanasia, la più criticata forse perché, essendo una ‘’dolce morte’’ attualmente non facile da realizzare e alquanto costosetta, non tutti possono permettersela e si è ….invidiosi. Ma così va la ..vita: è vero che, sempre gli stessi invidiosi, ci vengano a raccontare che i soldi non danno la felicità durante l’esistenza, ma vorrebbero perfino che non permettessero una morte INDOLORE. Il testo dell’articolo riporta questa frase: ‘’…ma la solitudine, unita al peso della vecchiaia, che aveva fatto sfiorire inevitabilmente la bellezza di cui la signora Oriella andava fiera.’’, ed ecco che per molti commentatori ‘’la perdita della bellezza’’, non la solitudine, non le pene come l’artrosi e le tante malattie degenerative che rendono triste, inutile ed insopportabile il ‘’dono’’, è diventata la vera predominante causa che ha portato alla ‘’inaccettabile’’ decisione di fare l’ultimo viaggio in terra straniera. Mi chiedo: mi sarà possibile, il giorno (anche lontano) che decidessi anch’io di riconsegnare il dono, evitare di dover emigrare, non per cercare un lavoro, ma per permettere allo Stato, alle porte della bancarotta, di poter usare la mia pensione per aiutare chi più di me ne ha bisogno?” ………. Mi capisci che tristezza e che impotenza mi trovo davanti, cara Giorgia? Ti ringrazio di cuore per l’attenzione. A proposito, ti ho appena messo il mi piace sulla tua pagina FB, così potrai vedere il mio profilo. Di nuovo e buon lavoro. Ciao
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Buonasera Giorgia, sono un credente praticante, ma che ha amici non credenti, agnostici e atei. Questo è un argomento di cui discutiamo spesso. Io sono d’accordo sulla sacralità della vita, sono perfettamente d’accordo che la vita è un dono, sono anche convinto che la vita è bella e che vale sempre la pena di essere vissuta. Faccio mio il passo di S.Paolo, RM cap.8-28…dove dice che tutto concorre al bene di quelli che amano Dio. Quindi anche le difficoltà sono un dono, magari non essenzialmente per noi, ma potrebbero essere per qualcun altro a noi vicino. Sono anche dell’idea che sul fine vita ci debba essere una certa terapia del dolore e un ridimensionamento consistente, se non la cancellazione dell’accanimento terapeutico. Ma le mie dfficoltà nelle mie discussioni con i non credenti sta appunto sull’eutanasia per chi la richiede. Quando una persona è senza speranza, il caso Welby, tanto per intenderci e viene richiesta, per quale ragione devo chiedere di non perseguire questa strada? Non c’è forse un sadismo latente nel voler prolungare l’agonia di un sofferente? E se questa persona è atea e vuole porre fine alla sua vita in un momento in cui pensa di aver conclluso il suo percorso, dove non vede sbocco, dove la sofferenza, e perchè no, la solitudine lo fanno considerare persona che ha perduto la dignità? Con quale diritto io impongo a lui di vivere o di continuare a vivere con gran sofferenza? Le vediamo negli ospizi le condizioni di certi anziani…Glielo ripeto, io considero la mia vita un dono e mai accetterò l’eutanasia, ma per chi non crede? Perchè lo devo imporre per legge? La ringrazio della pazienza e le auguro ogni bene.
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