La solitudine dei fuori classe: Alberto Manzi un Maestro che amava.

di Lettera 43 – 03/02/2014

Caro Maestro Manzi, le scrivo questa lettera come avrei potuto scriverla a Don Milani, a Adriano Olivetti, a Don Tonino Bello, a Peppino Impastato a Claudio Abbado e a tutti quegli uomini che nella loro solitudine hanno fatto grande l’Italia. Tutte persone che ci hanno indicato una via una soluzione, un’alternativa al conformismo e alla noia del trascorrere la vita senza affacciarsi dalla finestra e guardare cosa decidevano gli altri. Siete tutti morti nel nome della verità e della bellezza, del rispetto e della giustizia. Ora a  Lei dedicano anche una fiction, come ai prossimi santi, come a un ricordo di chi eravamo e cosa avremo potuto essere e come ci hanno distrutti. Ma io non la vedrò la sua commemorazione, preferisco ricordarmelo vivo, condividendo con Lei la concezione di scuola, scuola attiva, partecipativa, fatta di emozioni e di passione. Soffrirei troppo a vedere che Lei aveva scelto come il Maestro Abbado di fare cultura “uno a uno”, dove ognuno  ha un nome, un sorriso, un suo pensiero e una sua voce. Lei ci diceva che la diversità   forma  le nostre opinioni, il nostro senso critico, le nostre emozioni che dovevamo far scoprire all’allievo e non riempirlo di nozioni e poi, attendere la sua risposta che arrivava anche se in tempi diversi. Per Lei classificare un ragazzo voleva dire bollarlo tutta la vita. Lei voleva  educare continuando a chiedere risposte, a discuterle, inventando ogni giorno la motivazione per non fermarsi e ricercare non la soluzione ma un’idea diversa. Lei non voleva voti, né tanto meno giudizi. Fu anche licenziato perché si oppose alla ghettizzazione dell’identità: chi era Lei in fondo per giudicare uno studente che è in continua evoluzione, che cambia , come cambiano i paesaggi, gli orizzonti i sentimenti e la capacità di distinguerli? Ma questo non l’hanno capito gli alti poteri, e sappia che continuano a non capirlo neanche oggi.  Quando le imposero il voto si rifiutò di marcare dei ragazzi rappresentandoli con numeri e giudizi, allora lei si fece fare un timbro dove c’era scritto: “Fa quel che può, quello che non può non fa”. Le ire del summit del sapere e del nuovo che avanzava allora come adesso, senza pensare a quello che Lei aveva fatto, la lasciarono a casa e senza stipendio. Nessuno allora  si scandalizzò, anche se lei aveva alfabetizzato con il suo metodo scientifico ma pieno della forza del gioco, dell’idea divergente, del pensiero creativo 4.000.000 persone analfabete. Era  partito con l’educare ragazzi al carcere minorile a Roma e portandoli a fare un giornalino: “La tradotta” e la sua vita non fu facile, era un solitario e come tutti i fuoriclasse, non amava stare in compagnia dei suoi colleghi, ma si attorniava di persone estranee all’ambiente, perché non voleva teorizzare la sua scuola, ma praticarla, pensare a realizzare il pensiero intellettivo dei ragazzi, non voleva la nozionistica che oggi pratichiamo sempre più ed è presa ad esempio come metodo didattico da chi comanda le nostre vite e quelle dei ragazzi. Oggi non capiscono nulla di Scuola, i Ministri dell’Istruzione fanno a gara a chi privatizza di più, danno più soldi alle scuole private che a quelle pubbliche, vogliono le aziende nel consiglio d’Istituto: ci troveremo nelle scuole quegli industriali che forse lei ha insegnato a scrivere venire a sentenziare come dobbiamo insegnare, capisce che forse ci ritroveremo un John Elkann presidente della Fondazione Agnelli  che recentemente ha detto: “I giovani non trovano lavoro perché stanno bene a casa”, oppure Guido Barilla, che disse che non avrebbe mai fatto una pubblicità con una famiglia gay? Vogliono con una determinazione ostinata e contraria,  rendere la scuola meno accessibile a tutti, puntano sul merito degli studenti, indicano chi smette di studiare ma dimenticano che il primo dovere di un’insegnante è il saper sviluppare il proprio e il loro senso critico, il far pensare con il proprio cervello e la riflessione come capacità di analisi. Indicano le eccellenze e inchiodano l’ultimo della classe, non vogliono che un ragazzo ami, desideri e si emozioni di quello che fa e potrà fare. Gli levano dalla nascita gli strumenti necessari: la libertà di essere e non di avere. Mi ricordo ancora da piccolissima che i miei genitori anche se diplomati tutte e due, alle sei di sera avevano fissato l’appuntamento che raccoglieva tutta la famiglia e nonostante sapessimo le cose che spiegava, tutti eravamo affascinati dal modo di come lei le poneva, di come le faceva vivere, di come prendevano  forma. Erano gli anno ’60, ancora l’obbligo scolastico era un’optional  e i contadini che avevano bisogno di braccia forti per lavorare nei campi tenevano i figli a casa da Scuola, emigranti che vedevano l’industria automobilistica come l’America la lasciavano, tanti giovani artigiani  si mettevano in proprio e fondavano grandi aziende ma firmando con una croce. Ma lei, quando le proposero la televisione vide in essa, non quel maledetto aggeggio che è diventato adesso, quello dove i nostri ragazzi si devastano il cervello a ingoiare passivamente tutto quello che viene propinato da Mangia fuochi che creano aspettative e delusioni, effetti speciali e pornografia giustificata dai dati dell’auditel. No, Lei Maestro Manzi vedeva in quell’oggetto una persona in divenire, in movimento, una luce per chi non sapeva leggere la vita che gli stavano modellando addosso. E come Don Milani, lei voleva istruirli, voleva far capire la storia , quella memoria che dovrebbe darci la forza per non ripetere più gli stessi errori. Lei, anche a scuola non aveva libri, forse solo un sussidiario che faceva amare, sapendo che se insegni ad amare non smetti più di farlo per l’intera vita. Lei non faceva Storia, ma li portava nei luoghi della Storia, dove non c’è nulla da spiegare: bastava guardare i fili spinati, l’asse dove impiccavano chi non riusciva più a lavorare nei campi di concentramento, faceva leggere le scritte agonizzanti degli ebrei che scavavano nella parete sapendo che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbero lasciato ai loro familiari. Dovrebbe essere questo il metodo per dare la motivazione ai nostri ragazzi a non lasciare il nostro Paese: trovare insegnanti che  lavorino con passione, con quell’orgoglio che l’aveva portato per vent’anni nella foresta amazzonica a istruire persone sfruttate, prive di diritti Come diceva il suo credo Kantiano: “Il Maestro non può insegnare pensieri ma deve insegnare a pensare”, e lei come i fuoriclasse, i numeri uno, ha avuto il coraggio di rifiutare il brutto della vita e inseguire il sogno della bellezza. Come Pantani che quando decideva di lasciare il gruppo e andar a scoprir le stelle da solo lanciava il suo cappellino, lei, Maestro Manzi ha lanciato l’idea e noi qui, l’abbiamo nelle mani ma dobbiamo avere il suo coraggio. Quello di slegarci aiutandoci tra noi e finalmente costruire la Scuola in cui non esistono test e sondaggi ma cooperazione, solidarietà, libertà e amore.

manzifilm

Fonte: Lettera 43

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