di Giorgia Petrini
Adesso, non è che io voglia fare la guasta feste, che non sia la prima a dire che la famiglia è una sola, che non sia d’accordo col fatto che i bambini abbiano bisogno di una mamma e di un papà, e tutte quelle cose lì. Ho detto e scritto tante volte che un conto è la sostanza e un altro conto è la maniera. Per fare un esempio facile, il matrimonio cristiano è un sacramento che esiste per tutti. E’ di per sé un sacramento “indipendente”. Eppure, c’è chi si sposa in chiesa solo per costume e chi lo fa solo per fede. La maniera con cui ci si accosta al matrimonio contraendone uno, di per sé, non dà un diverso valore al sacramento. Non gli dà nessun altro significato, se non quello che ha, di unione indissolubile portata avanti per l’eternità con la grazia di Cristo. Ciò che è diverso sono le conseguenze causate dalla maniera, dall’approccio, dallo stile con le quali lo si contrae e lo si vive. Il matrimonio è un mezzo (non una meta) per arrivare altrove: è quello che facciamo nel mentre, nel durante, che rende a quel sacramento la sua propria dignità o la sua propria nullità. Ma “esso matrimonio” è sempre “esso matrimonio”, come la realtà. Per affermare la verità e la bellezza del matrimonio, dunque, non ho bisogno di dire a chi la pensa come me che tutto il resto non si può fare (qualunque sia il motivo), che fa male alle persone, che è ingiusto, inadeguato, triste, cattivo, pericoloso o infingardo. Se la pensano come me, dovrebbero già saperlo. Ho più bisogno di dire (o meglio testimoniare con la vita e con l’esempio) a chi NON la pensa come me che quello che io faccio e il modo in cui lo vivo è per me la cosa più bella e più vera che esiste al mondo.
Non contesto la sostanza di quello che si è detto sabato a Milano e si sta dicendo in giro per l’Italia (sullo “stesso” palco e nello stesso modo), ma la maniera, le circostanze e le modalità sì. Ci sono tanti modi per esprimere un pensiero, manifestare il proprio credo e mostrare agli altri con la nostra vita cos’è per noi la realtà, la bellezza, la concretezza della verità. Ho letto, conosco e seguo da tempo con interesse Massimo Introvigne (con il quale condivido anche la penna per la Nuova Bussola Quotidiana), Padre Maurizio Botta, Costanza Miriano, Mario Adinolfi e Marco Scicchitano. Quello che dicono è molto spesso (non sempre) quello che penso anch’io e nel mio secondo libro (clicca qui) ho toccato molti dei temi che fanno da “gobbo fisso” in questi eventi (Costanza ha letto il mio libro prima che uscisse, quindi credo lo sappia bene – menziona spesso questioni al femminile scritte allo stesso modo anche da me), però ci sono tante cose che non mi piacciono in questo modo di fare e di essere e alle quali, stesso vangelo alla mano, so di non appartenere pur essendo paladina delle stesse battaglie e figlia dello stesso Dio. Significa che sono una cattolica moscia, come leggo in tanti commenti di chi definisce tale chi non si alza a sbracciarsi in tifoseria per la ola quando si dice che “un bimbo nasce da un uomo e da una donna”? Non credo. Semplicemente penso che la verità sia più forte, evidente, chiara e presente di ogni nostro tentativo di renderla ancora più palese (?) di quello che è, facendola sembrare una partita di pallone.
Viviamo in un momento di pericoloso confine tra la fede e il tifo, l’ideologia. Rischiamo di manifestarlo male e di testimoniarlo peggio. Alimentare un clima da stadio e tifoseria, parlare a folle che non si conoscono davvero fino in fondo, dirsi le cose tra chi le sa e le pensa nello stesso modo, cadere nella rete del ragno quando la politica, affamata di nuove propagande, per attirare nuovo consenso, siede in prima fila e scivola su una buccia di banana, non ci aiuterà ad essere più credibili. Siamo ciò che facciamo, senza il bisogno di allontanare nessuno. Aggiungerei: anche senza l’ansia di doverlo tanto “dire”.
Dopo aver visto, ieri notte online, com’è andato il convegno di sabato sulla famiglia in regione Lombardia (della serie, è tutta farina del mio sacco e di quel po’ di senso critico che a fatica cerco di conservare per il bene dei miei amici), faccio una domanda provocatoria a tutti i miei lettori, col cuore di donna però, e qui chiudo questo post: ma che cosa ne sarà di Zac, quando tra qualche anno, da grande, comincerà a rendersi conto di cosa si è detto di lui, di come lo si è detto, di dove lo si è detto e del perché lo si è detto? Cosa lo convincerà davvero della “vera verità”? Quale sarà “per lui” la verità? In ogni buona battaglia qualcuno muore martire prima del tempo, si sa. Eppure, l’idea che questo bambino (e chissà quanti altri?) prenda atto a 13 anni della sua vera “assenza di identità” da un dibattito pubblico, dalle mediocri spiegazioni del finto padre e da qualche ritaglio di giornale sicuramente poco attento alla sensibilità di quello che oggi a tutti noi sembra un bambino senza futuro, mi rattrista da morire.
Quando si fa una battaglia per il bene altrui, dobbiamo sempre ricordarci che l’altrui vero sfugge alla nostra migliore comprensione. Quella sulla vita non è una battaglia “di ragione”, checché se ne dica. Neanche quella sulla famiglia lo è, altrimenti non esisterebbero Enrico e Chiara Corbella Petrillo, che pure conosco e ho conosciuto. Quando ci sono donne che affittano il proprio seno per allattare figli di omosessuali a 100 euro l’ora (cosa che “alla ragione” di qualcuno sembrerà anche ragionevolissima), noi non siamo chiamati a convincerle a parole che non si fa, ma a mostrare loro qualcosa di diverso.
A me sembra che la diga sia troppo piena e che si stia superando “il nostro livello di buona battaglia”. Perché guardate che, in fondo al cuore, tutti sappiamo che le persone non sono cose, che i bambini nascono da un uomo e da una donna, che hanno bisogno di una mamma e di un papà e che un matrimonio tra persone dello stesso sesso (se mai faranno questa maledetta legge) non è come il matrimonio tra un uomo e una donna. In fondo, lo sanno pure loro. Piuttosto, quello che davvero non sappiamo è perché Dio permette questo. Così come non sappiamo se arriveremo a vedere come finisce il film, chi si salverà, chi morirà, chi si ucciderà…
Se Gollum non fosse arrivato in fondo alla storia e non fosse caduto nel fuoco con tutto l’anello, per strapparlo con un morso dal dito di Frodo, Frodo avrebbe perso. E se lo dice Gandalf, io gli credo molto di più che a Formigoni: “Molti di quelli che vivono meritano la morte e molti di quelli che muoiono meritano la vita… Tu sei in grado di valutare, Frodo?”
Io sicuramente no. Ma so che Dio ha un piano, perché lo conosco.
A me, questo basta.
Grazie per queste riflessioni, esprimono anche quello che sento in questo periodo…un piccolo disagio in fondo al cuore davanti a verità sacrosante ma forse troppo rivendicate e gridate. Credo che noi cristiani siamo chiamati prima di tutto ad essere accoglienti, ad imitare Gesù, la sua capacità di farsi vicino a chiunque, di parlare con chiunque anche di temi “caldissimi” senza mai perdere di vista il fatto che non voleva convincere ma salvare chi aveva davanti.
Lidia
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