di Giorgia Petrini
Sarà che a me la zucca piace cotta (in tutti i modi)… ma… mi è parsa sempre scema l’idea di andare a suonare al citofono di qualche sconosciuto, vestita di stracci; in più, promettendo – a un tizio che non mi faceva nessun torto – incantesimi che non ho mai visto fare a nessun bambino, solo per farmi dare (al massimo!) una caramella. Spesso, pure vecchia.
Non so. Ricordo che mia mamma quando ero piccola passava interi mesi a cucire a mano per me quello che sarebbe stato il mio prossimo vestito di carnevale. Ricordo pizzi e merletti strepitosi, ricami prodigiosi, colori splendenti e piccoli abiti luccicanti. Ricordo l’emozione di rispondere “Principessa!” a chi mi chiedeva da cosa ero vestita e ricordo anche l’incredulità di tante mamme che guardavano i miei bellissimi vestiti come qualcosa di troppo prezioso per loro. In realtà, svestendo i loro sguardi dal pregiudizio, l’unica cosa che non si potevano permettere, forse, era di esprimere con i propri talenti quello che la mia mamma sapeva fare per me. A ognuno di noi il Signore dona un equipaggiamento di serie specifico, unico e irripetibile. Tutti gli anni, senza sconti, senza rinunciare mai neanche a scegliere un bottone, un filo, uno scampolo riciclato dalla sartoria del mio caro nonno, sgambettavo all’idea di come, alla fine, sarebbe venuto il mio nuovo vestito di carnevale. Non mi ha mai messo addosso un vestito comprato (non ce lo potevamo permettere) – men che mai pure brutto – eppure, allo stesso tempo, non mi ha mai delusa, nelle mie aspettative di bambina. Ho avuto le maschere più belle, i ruoli migliori, le occasioni più imperdibili e imbattibili. Anche quando ho fatto Maria alla recita della scuola elementare passò tutto l’anno a prepararmi il vestito, cucito a mano, punto per punto… No, no. Non era una sarta mia mamma! Era – ed è – un’artista, questo sì, ma non aveva fatto tutte quelle scuole che noi oggi diremmo di dover fare anche per rammendare …un calzino? Lo buttiamo e li compriamo nuovi. C’è una grande differenza. Enorme. Io so cucire e ben altro in più con ago e filo. Me ne vanto assai e mi piace anche.
A mia mamma non sarebbe mai venuto in mente di vestirmi (con degli stracci) da vedova allegra, da strega o da maga. Tanto meno mi avrebbe mai messo una zucca vuota tra le braccia per dirmi di andare a suonare a casa degli altri. No, no. Mia mamma era una principessa dentro. Mi ha educata alla bellezza (non alla bruttezza), all’arte (non a tirare secchiate di vernice sui muri), alla musica (non al suono dei citofoni), alla lettura (non alla televisione), alla scrittura (non all’analfabetismo), al teatro (non alle farse), alla danza (non agli “zompetti”), al gusto delle cose raffinate (non alla puzza sotto il naso), alla delicatezza di spendersi per mettere il cuore in qualcosa (non a tirar via), alle cose che si fanno per amore (non a quelle che si fanno per dispetto), alla luce (non al buio), alla vita (non alla morte).
E’ una tipa ganza la mia mamma, pur non avendo mai fatto una gran vita di chiesa. “E che vuol dire?” Le dico sempre anche oggi quando ne parliamo. E’ stata strumento inconsapevole del modo che Dio ha trovato con me per non farmi mai adorare, festeggiare, valorizzare o celebrare le cose brutte, le zucche vuote, le caramelle vecchie o i citofoni. Ho vissuto una vita di sovrabbondanti splendide forme ed esperienze, benché non fossimo né ricchi, né particolarmente “fortunati”.
Se cresci chiedendo caramelle vecchie ai tuoi vicini vestita di stracci, o invece invitando sempre qualcuno a cena e apparecchiando la tavola con dei segnaposto fatti a mano, la differenza si vede, si sente, si eredita e si trasmette.
Non lasciate che i vostri figli crescano al buio, raschiando le pareti di una zucca vuota che non assaggeranno mai. Quella è la strada degli afflitti, dei rosiconi, degli invidiosi. Dategli voi una caramella buona e magari, nel frattempo, rammendate con loro un calzino: prenderanno meno freddo da grandi e impareranno prima e meglio a rattoppare il proprio cuore dalle delusioni che la vita gli offrirà. Ma, soprattutto, e non ultimo, avranno meno carie!
Per i più “esperti”, invece, ricordiamoci sempre che non serve neppure essere cristiani per capire che tra San Francesco e una zucca vuota o la morte col sangue finto che ti cola davanti c’è un insormontabile divario di bellezza e di grandezza. Preferire, peraltro con grande ignoranza culturale, di festeggiare Halloween invece che Ognissanti significa preferire il buio alla luce, la bruttezza alla bellezza, la banalità alla meraviglia, il fuoco all’aria. Se vi pare cosa normale, fate un po’ voi. A me pare che, in giro, di sangue (vero) se ne veda già abbastanza.