di Giorgia Petrini
Egregissimo signor Moncler,
non me ne voglia, ma io ho sempre portato il chiodo, non essendomi potuta mai permettere di sentire troppo caldo con le sue piume di prima qualità. Però, mentre lei si rivolge alle sedi opportune, e il titolo in borsa si schianta, le dico cosa ho visto io a Report l’altra sera.
Senza entrare nella guerra mediatica di “alto livello” (per la quale non mi sento all’altezza) che intraprenderà per rimettere al centro i diritti delle oche che le stanno a cuore più della sua reputazione, le dico che l’altra sera ho visto una cosa molto triste. Ci ho dovuto dormire sopra. Non tanto per le oche (non me ne vogliano gli animalisti), che pure meritano di starnazzare tranquille in libertà (e con le piume addosso, poverine), quanto per le persone. Ha presente? Gli esseri umani. Quelli che non hanno piume (non tutti almeno), che hanno una linguistica poco più colorita di quella delle oche e che se provi a staccargli un pelo dal mento senza avvisare, oggi, in media, come minimo ti staccano un braccio con un morso (o un’ala, faccia lei). Ecco, quelli. Quelli lì, come le oche nel loro piccolo, hanno una certa dignità. Hanno una vita, hanno dei talenti, hanno delle famiglie, hanno un cuore e perfino un’anima, mi creda, anche quando pensano che non sia così, anche quando non se ne rendono conto e anche quando pensano che valga per tutti tranne che per loro. Sono nati per qualcosa di grande. Lei non lo sa, egregissimo signor Moncler, ma sulla vita – anche la sua – di ogni essere umano pende una grande promessa. Di felicità, di amore, di onestà, di bellezza.
Ho visto una cosa molte triste, le dicevo. E dovrebbe vederla anche lei, con lo sguardo di chi sapientemente (come la sua reputazione dovrebbe raccontare, avanti e dietro a tanti paroloni) sa guardare un poco oltre.
E’ triste far capire al mondo che tutto ha un prezzo (per giunta altissimo) ma non ha un valore; è triste non sapere (da imprenditori, quali siamo) che le aziende (“ottime”, a suo dire) alle quali lei dice di far capo ne prendano altre per il collo (lo sa benissimo anche lei); è triste far credere al mondo che lusso è ciò che costa caro, anche quando è un oggetto superfluo o che di brand si può vivere e morire; è triste pensare che oggi le persone per avere un’identità debbano vestirsi in un certo modo, spendendo migliaia di euro per un piumino. Ma la cosa ancora più triste di tutte, mi creda, è ciò che, dietro a tutto questo, governa ormai la coscienza di chi adora e crede solo nel denaro, nel brand e nel profitto. Legga il mio ultimo libro! Parla proprio di questo. Come sappiamo bene entrambi, è il nuovo dio di questo tempo, è il signor Capitalismo. E’ una regola semplice: qualcuno produce qualcosa al minor costo possibile (risparmiando sulla dignità e investendo sullo sfruttamento delle persone – e, dato il caso, ad esempio, anche degli animali) e lo rivende al maggior costo possibile (identificato con “ciò che la gente è disposta a spendere” e non con ciò che vale veramente). A volte, l’assurdo è che a parità di costo (misero) accade perfino il contrario: meno costa e più si vende (recentissimo è anche il caso di H&M). Non ci sono grandi spiegazioni nel mezzo da dare. E’ quello che comunemente si riassume nel teorema secondo cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E’ lo stesso assioma ingovernabile secondo cui c’è la crisi più terribile della storia eppure il Moncler a duemila euro si vende lo stesso. A chi? Chi lo compra un Moncler a duemila euro? Lei lo sa? Io sì.
Posso dirle, illustrissimo signor Moncler, che io lo so. So chi compra un Moncler a duemila euro, perché senza farmi nessuna domanda, quando ero atea, spendevo anche di più per una cintura firmata o un paio di scarpe di Prada. Chi compra il suo Moncler è qualcuno che cerca di tornare a casa avendo smarrito la via. E’ qualcuno che non sa quello che fa e che crede di poterlo fare solo perché se lo può permettere. E’ qualcuno che riempie la propria vita di piume anziché di oche. E’ qualcuno che si sente autorizzato a darsi meriti e a negare doni. E’ qualcuno che lo comprerà lo stesso, il suo caldissimo Moncler, indipendentemente da come andrà la sua guerra personale nei confronti di Report e della Gabanelli. E’ qualcuno che, in genere, alla domanda “ma non ti chiedi cosa c’è dietro a tutto questo?” risponde che “ognuno ha i suoi problemi”. Quel qualcuno sono stata anch’io e ricordo bene cosa pensavo e in cosa credevo prima di scoprire quello che (nel 1981!) scriveva San Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Laborem Exercens”:
(…) con la parola «lavoro» viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. (…)
(…) il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di «rendere la vita umana più umana», allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un’importanza fondamentale e decisiva. (…)
(…) L’interazione fra l’uomo del lavoro e l’insieme degli strumenti e dei mezzi di produzione ha dato luogo all’evolversi di diverse forme di capitalismo – parallelamente a diverse forme di collettivismo – dove si sono inseriti altri elementi socio-economici a seguito di nuove circostanze concrete, dell’opera delle associazioni dei lavoratori e dei poteri pubblici, dell’apparire di grandi imprese transnazionali. Ciononostante, il pericolo di trattare il lavoro come una «merce sui generis», o come una anonima «forza» necessaria alla produzione (si parla addirittura di «forza-lavoro»), esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico. (…)
(…) l’uomo viene trattato come uno strumento di produzione, mentre egli – egli solo, indipendentemente dal lavoro che compie – dovrebbe essere trattato come suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore. Proprio tale inversione d’ordine, a prescindere dal programma e dalla denominazione secondo cui essa si compie, meriterebbe – nel senso indicato qui sotto più ampiamente – il nome di «capitalismo». Si sa che il capitalismo ha il suo preciso significato storico in quanto sistema, e sistema economico-sociale, in contrapposizione al «socialismo» o «comunismo». Ma, alla luce dell’analisi della realtà fondamentale dell’intero processo economico e, prima di tutto, della struttura di produzione – quale appunto è il lavoro – conviene riconoscere che l’errore del primitivo capitalismo può ripetersi dovunque l’uomo venga trattato, in un certo qual modo, al pari di tutto il complesso dei mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non invece secondo la vera dignità del suo lavoro – cioè come soggetto e autore, e per ciò stesso come vero scopo di tutto il processo produttivo. (…)
Vede, cortesissimo signor Moncler, non è più tempo di ragioni, di condanne, di smentite o di piume. E’ tempo di oche. E’ tempo di capire che il vero scopo di tutto il processo produttivo è l’uomo. E noi, da imprenditori, non possiamo né dimenticarlo né fare finta di non saperlo. E’ la nostra prima responsabilità, è il nostro primo dovere, è la nostra prima missione.
Adesso, mi faccia la cortesia, non racconti baggianate quando sarà il momento di dire le cose come stanno. E poi gli animalisti sono assai peggiori dei giudici in questo Paese (guardi il caso Cucchi che “fine” ha fatto proprio in questi giorni!); se c’è una cosa da temere più di un processo è la Brambilla che, conclusa con brillante trasparenza un’invisibile esperienza da ministro del turismo, si è dedicata a tempo pieno alla liberazione dei beagles e alle spiagge libere per i dalmata. Mi creda, questa cosa delle oche le farà passare più guai dei lavoratori a cottimo subordinati alle aziende subordinate da multinazionali subordinanti. Ormai o finalmente – purtroppo o grazie a Dio? – lo sanno tutti che lo sfruttamento, la disperazione, l’ignoranza e la morte fanno parte del PIL: il mercato della tecnologia (in cui si muore di Coltan) non è diverso da quello dei jeans smacchiati (per il quale si muore di silicosi). Però lì, da qualche parte, sotto alle piume di qualità, un cuore ce l’ha anche lei. Anche lei sa di che parliamo. Per restare in tema di stagione e di piumino, oggi non le fa né caldo né freddo, ma arriva per tutti il momento della Verità e a quel momento è bene arrivare – per quanto possibile – preparati.
La prego, gentilissimo signor Moncler, ci ripensi. Riveda “il prezzo di questa storia” con gli occhi di chi sa guardare al vero valore della vita (“di poco” più alto di quello di un Moncler). Guardi negli occhi quelle persone, quelle aziende italiane strozzate dalla finta scusa del costo del lavoro, quei poveri disperati che riempiono i propri armadi di scarpe e di piumini, e faccia con me questa battaglia. L’unica che valga la pena di combattere in un mondo che ormai pensa soltanto a spendere sempre di meno per ogni cosa perché non è più capace di rinunciare a niente… Diciamo insieme: “il vero scopo di tutto il processo produttivo è l’uomo“.
Grazie per la sua attenzione, onorevolissimo signor Moncler. Vedrò di seguire la sua avventura giudiziaria con Report e la Gabanelli con interesse, per capire se in fondo è proprio vero che …alle fine le papere contano più delle persone.
Le lascio questo bel pensiero della Beata Madre Teresa di Calcutta:
Il povero non ha fame solo di pane, ha una fame terribile di dignità umana. Tutti noi abbiamo bisogno d’amore e di esistere per qualcun altro. E’ lì che ci sbagliamo, quando scansiamo la gente, l’ignoriamo. Non solo abbiamo negato ai poveri un pezzo di pane, ma, considerandoli niente, abbandonandoli per strada, neghiamo la loro dignità, di essere a pieno titolo figli di Dio. Il mondo oggi è affamato non solo di pane, ma d’amore; ha fame di essere desiderato, amato. La gente ha fame di sentire la presenza di Cristo. In molti paesi si ha tutto in abbondanza, tranne questa presenza, quest’amore. In ogni paese ci sono i poveri. In dei continenti la povertà è più spirituale che materiale, una povertà fatta di solitudine, scoraggiamento, mancanza di senso. Ma ho visto anche, in Europa o in America, gente nella miseria più grande dormire su cartoni, pezzi di stoffa, nelle strade. Parigi, Londra o Roma conoscono questo tipo di povertà. E’ facile parlare o preoccuparsi dei poveri lontani. Più difficile, e forse è una grande sfida, far attenzione e preoccuparsi del povero che vive a due passi da noi. Il riso, il pane che do all’affamato che incontro per strada sazieranno la sua fame. Ma chi vive nell’esclusione, mancanza d’amore e grande paura, quanto sarà difficile colmare quella fame. Voi che siete in Occidente, conoscete la povertà spirituale molto più che la povertà materiale, e per questo i vostri poveri sono fra i più poveri. Tra i ricchi ci sono spesso persone spiritualmente poverissime. Io penso che è facile nutrire un affamato o dare un letto a un senza-dimora, ma consolare, cancellare la desolazione, la pena e l’isolamento che vengono dalla povertà spirituale, ciò richiede molto più tempo. (No Greater Love, p. 93).
concordo con quanto scrivi…ciao
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