Quando il capro espiatorio è la scienza, fanno tutti un passo indietro.

di Giorgia Petrini

aquila

Quando la folla insorge su notizie del genere, mi viene sempre spontanea una domanda (che ho smesso di farmi da qualche anno avendo trovato la risposta): ma la scienza che cos’é? Pensiamo di saperlo, ma in realtà non lo sappiamo. Ci aspettiamo che i diluvi promessi dal meteo.it siano quelli effettivamente attesi, che i terremoti ci avvisino in tempo, che i vulcani  non facciano sorprese e che il mare non si muova di un millimetro da dov’è. Quando progettiamo una centrale nucleare come Fukushima pensiamo a tutto, …o quasi? Come per la fecondazione eterologa, la chirurgia plastica e gli OGM. Andiamo a vedere tutti i film che fanno gli americani su disastri naturali di ogni tipo mangiando pop corn in fila alto centrale, ma se il tombino davanti casa si tappa, la punturina di botulino viene male e mi si gonfia tutta la faccia, o la fecondazione riesce a pera perché il donatore “era sbagliato” (non so bene cosa significhi nella testa di chi dice questo di fronte a un bimbo nato), allora prende vita tutto ciò che Renè Girard scrive in un bellissimo libro: Il capro espiatorio.

Gli esseri umani fanno cose banali, rischiose, promiscue e pericolose: tutte sicuramente imprecise e certamente imperfette. E’ la nostra natura. Se c’è una cosa su cui essere prevedibili è proprio questa: in ogni occasione storica della nostra vita accadrà qualcosa secondo cui non è più “vero” ciò che era “vero” (solo apparentemente) un minuto prima. Anche se lo è stato per cento anni. La scienza è uno strumento, un mezzo attraverso il quale cercare di scoprire e conoscere meglio la realtà che esisteva già prima di noi, come tutto ciò che ci è stato consegnato perché ne facessimo un uso responsabile, universalmente condiviso e utile a tutti (la politica lo chiama “bene comune”). E’ un dono, un grandissimo dono. Niente di più, niente di meno.

popper

La scienza non dimostra nulla. Scopre cose, neanche nuove di per sé, che in quanto “scoperte” -appunto- erano già lì, presenti in altre forme, in altre vesti, in altre essenze. La realtà non è l’insieme delle nostre ricerche scientifiche, ma è il manifesto già esistente delle nostre scoperte.

Ipotizziamo che certi vulcani non erutteranno mai, che certi meteoriti non cadranno mai su un oceano alzando onde che faranno da sole scomparire il pianeta senza sporadici disastri nucleari, che i terremoti ci daranno il tempo di liberare le nostre case dalle cose cui siamo affezionati, che le alluvioni ci daranno il tempo di gonfiare il canotto per scappare e che il maltempo promesso -tanto da chiudere le scuole e da minacciare il “codice rosso”, anche dove ha fatto due gocce- non ci faccia inveire in greco antico contro nessuno… ipotizziamo, speriamo, pensiamo, appunto, ma in nessuno di questi casi diremmo di “credere nella scienza”, altro veneratissimo dio di questo tempo, semplicemente perché effettuando delle semplici congetture (per quanto tecnicamente complicate agli occhi di chi non parla certe lingue), spesso sbaglia. Tutti fedelissimi, ma solo prima che  una cosa accada.

Disse Karl Popper nel 1919 dopo aver ascoltato Einstein a Vienna: “non si deve andare in cerca di conferme, ma di controlli cruciali; controlli che potrebbero confutare la teoria messa alla prova, mai confermarla definitivamente.

Che altro aggiungere? Fin quando qualcuno non mi dimostrerà che mia nonna era una scimmia (e ne approfitto per ricordare a tutti che il povero Darwin confutava anch’egli una teoria, come tutti gli scienziati -vi segnalo qui un libro in proposito dell’amico Enzo Pennetta), non avrò alcun dubbio sull’origine (divina) dell’universo. Quando e se dovesse mai arrivare quel giorno poi, potrò finalmente dire con certezza che, oltretutto, Dio ha veramente uno spiccato senso dell’umorismo. Del resto, l’ho sempre sospettato.

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